Abstract:
In occasione dell’elaborazione culturale dei temi del 2025 in cui Gorizia e Nova Gorica sono state nominate capitale europea della cultura, è opportuno sottrarre la figura di Carlo Michelstaedter da alcuni stereotipi che si sono cristallizzati nel tempo e riproporre, sotto nuova luce, la questione del rapporto fra l’espressione del pensiero e la via delle arti. L’autore goriziano potrà dunque essere compreso come uno snodo culturale importante tra XIX e XX secolo. Insieme alla critica dei modelli conformisti della società di massa, si può cogliere in Michelstaedter un tentativo di conciliazione della via speculativa e di quella espressiva nella filosofia come esercizio di vita, nella tendenza alla salute come equilibrio impossibile, nel conflitto tra pulsione di vita e di morte e nel silenzio della dimensione mistica..

“’Dio vi dia la salute’, augurò il custode del cimitero ai due amici che uscivano… ‘Pure’ disse poi crollando il capo ‘pure… Dio vi dia la salute’[1].
Nell’anno in cui Nova Gorica e Gorizia sono state nominate capitale europea della cultura, è interessante per il dibattito pubblico porsi qualche questione sulla figura di Carlo Michelstaedter, intellettuale di frontiera vissuto prima della divisione dei confini del Novecento, per molti aspetti simbolo di un’identità complessa e plurale, legato a Gorizia per la sua vicenda esistenziale e filosofica e sepolto oggi nel cimitero di Valdirose in territorio sloveno.
Che cosa ha ancora da dire al presente la figura di Carlo Michelstaedter[2]? A cosa allude quando parla di “salute” nel suo prezioso Dialogo della salute, scritto negli stessi ultimi febbrili mesi del 1910 della composizione de La Persuasione e la rettorica? Esplorato fin nelle pieghe delle sue carte, giunte avventurosamente fino a noi, vivisezionato nel suo linguaggio denso e talora oscuro, nell’urgenza di dire ciò che la parola difficilmente sostiene, resta ancora qualcosa di attuale della sua multiforme e prodigiosa opera?
Se è opportuno sottrarre Carlo Michelstaedter a un adattamento alle categorie del nostro tempo, dobbiamo provare a farlo misurandoci con il suo spirito antiborghese, con la sua critica al conformismo dell’incipiente società di massa, con il suo plurilinguismo capace di fare dialogare il sapere tecnico e quello umanistico. All’inizio del Novecento questo fulminante e perdurante tentativo non sceglie la via della protesta o della bohéme, ma dell’espressione di quello che è propriamente umano: la ricerca della verità, la passione per le arti e la consapevolezza che se l’uomo non vuol ridursi a perseguire l’utile, prigioniero della dittatura della chiacchiera, deve tendere attraverso l’azione alla salute.
La fortuna di Michelstaedter, che continua a esercitare un fascino duraturo anche sulle giovani generazioni di studiosi e che è stato ormai assimilato nella memoria civica e nell’apparato comunicativo della città di Gorizia, rischia tuttavia di imprigionarlo tra due stereotipi. Il primo vede il filosofo goriziano come un intellettuale da antologia, da celebrare nelle occasioni ufficiali delle ricorrenze o della nostalgia di una patria perduta, l’antesignano di un’idea diversa di Europa nel cuore della Mitteleuropa prima delle grandi divisioni del Novecento. Il secondo lo considera uno scandalo, un elemento perturbante, qualcosa di familiare ma che ci è allo stesso tempo estraneo e che genera inquietudine, spaesamento, angoscia ma anche attrazione e fascino. Dunque un intellettuale (filosofo, poeta) caro a una certa cultura neoromantica e vitalistica, appartenente al medesimo Zeitgeist di Nietzsche, che consuma la vita alla ricerca dell’Assoluto.
Più recentemente è emersa una terza prospettiva, che vede in Michelstaedter un intellettuale di frontiera fra due o più versanti, quelli linguistici (l’italiano e il tedesco), quelli culturali (l’appartenenza alla tradizione ebraica e l’uscita dal ghetto della famiglia già prima della nascita di Carlo), quelli geografici e territoriali dell’epoca (Gorizia, Vienna e Firenze sono i luoghi idealtipici della sua vicenda) e di quelli storici fra Ottocento e Novecento e persino di quelli che sarebbero venuti dopo (il fronte orientale della Grande Guerra, il fascismo di confine, la linea bianca della guerra fredda, il confine superato nel 2004 con l’ingresso della Slovenia in Europa) rappresentati dalla pervicace resistenza del cimitero di Valdirose, dove Carlo riposa insieme al fratello e ad altri familiari e dove ha metaforicamente inizio, come in una specie di inversione temporale, il Dialogo della salute.
Nel tentativo dunque di non cedere a schematismi interpretativi, nell’anno 2025 nel quale Gorizia e Nova Gorica si apprestano a essere il terreno fertile di incontri, esposizioni d’arte, eventi musicali vale la pena di interrogarsi ancora su alcune delle parole dell’ultimo Michelstaedter: che cos’è davvero la salute? E come è possibile raggiungerla attraverso i linguaggi delle arti?
La salute è evidentemente intesa da Michelstaedter non solo come salute del corpo (valetudo[3]) ma anche come salvezza (salus), mentre la considerazione delle arti si muove verso un’altra dicotomia tra l’idea di una consolazione temporanea e illusoria, al modo di Schopenhauer, e dall’altra parte verso una via autentica orientata alla persuasione.
Tra questi due poli, la salute e le arti, si colloca la filosofia come esercizio del pensiero. L’autore goriziano è protagonista inattuale, come lo era Nietzsche, di una concezione pragmatica della filosofia intesa come strumento di critica della società e del sapere accademico (si pensi alla tesi non presentata), come coincidenza di vita e pensiero, in cui l’obiettivo della verità è sempre rilevante per il singolo. Oltre che a Nietzsche la mente corre anche al filosofo dell’esistenza che ha fatto del singolo la sua cifra speculativa, Kierkegaard e al teatro di Ibsen[4] tanto caro allo studente Michelstaedter.
Né Schopenhauer, né Socrate, né Platone hanno in qualche misura elogiato la via del suicidio, in quanto annullamento del corpo, come possibile accesso all’assoluto o strada verso la contemplazione della verità. La vita va accettata nella sua contingenza, non ha altra ragione che se stessa (philopsichìa), e la ricerca dell’assoluto di Michelstaedter non è semplicemente quella di un romantico, di un decadentista o di un simbolista. Scrive il goriziano in uno dei pensieri degli ultimi mesi: “Che infine è miserevole cosa ammettere l’assoluto come cosa intesa anzi che s’intende da sé (selbstverständlich), chiuderlo in parole generali e per quanto possibile tecniche: energia, legge d’evoluzione, gravitazione, materia, stato d’animo (per i psicologi), iità, subcoscienza, impressione, percezione, intuizione, concezione…, perché a nessuno venga in testa di vedere se l’assoluto c’è dentro o no; come la Humbert, che parlava dei suoi milioni mostrando una cassa che nessuno osava aprire”[5].
Da qui si evince una sorta di ironia verso la ricerca dell’assoluto, perché né la via del pensiero né quella delle arti sembrano portare verso la soluzione di un dramma che appare innanzitutto esistenziale. A cosa sono votati allora la scrittura febbrile dell’ultimo periodo, la poesia che prova a cogliere la perla della verità attraverso il tuffo nelle profondità del mare (si vedano le poesie A Senia e I figli del mare), la pittura dell’ultimo autoritratto e dell’ultimo quadro realizzato per il compleanno della madre (elemento scatenante dell’ultima crisi), l’identificazione con il Pergolesi dello Stabat mater autore della melodia del giovin divino[6]?
Alcuni fra i testi più interessanti sono gli ultimi della brevissima vita di Michelstadter (Il dialogo della salute, La persuasione e la rettorica, l’Epistolario) dai quali emerge il bisogno di scrivere in modo autentico (parresìa), la scarnificazione della parola, il problema dell’intraducibilità della parola (a partire dallo stesso concetto di philopsichìa), la scrittura per sé e non per le convenzioni sociali.
Se da una parte la via del pensiero appare votata all’impossibilità della parola ultima, alla sua incomprensibilità per cui sfocia in una sorta di silenzio mistico, dall’altra i linguaggi delle arti sembrano invece espressione di una vitalità profonda ma mutevole e con il rischio di rivelarsi consolatoria.
In questo senso la salute è negli ultimi scritti di Michelstaedter un desideratum, un elemento mancante, che si avvicina a quella spinta verso il ritorno all’inorganico di cui parlerà Freud qualche anno più tardi in Al di là del principio di piacere (la pulsione di morte, Todestrieb)[7], un’antitesi alla philopsichìa, a quell’attaccamento alla vita che produce ansia, frenesia, conformismo e annullamento dell’individuo nella massa.
Quel che ci resta infine è la dimensione di critica sociale e culturale, un pensiero eternamente giovane che non ha fatto in tempo a diventare adulto. Un monito a non adeguarsi, a non assimilarsi a un sistema di regole e convenzioni nel passaggio verso la vita adulta, a esercitare il pensiero e la creatività artistica come forma di resistenza e libertà, a “non mettere il proprio Dio nella propria carriera”[8]. Vi è una certa impronta nietzschiana in questa postura, quantomeno nello scarto percepito tra la vita dell’Io e la non vita della massa e nell’appello a “dire-sì-alla-vita” che appartiene al messaggio dello Zarathustra.
Si tratta di una tensione verso la quiete, la salute, l’uniformità dell’essere, il silenzio dell’inesprimibile ma non una negazione dell’azione e della vita. Terminato il lavoro al monumento funebre del fratello Gino, negli ultimi mesi prima del suicidio, Carlo Michelstaedter ebbe a scrivere: “allora sentii che per la morte avevo lavorato e mi riconobbi vuoto e miserabile e impotente”[9]. Dunque la distinzione è chiara, così come ne Il canto delle crisalidi, poesia che ricorda un frammento di Eraclito, dove vita e morte sono intrecciati in un’armonia degli opposti inestricabile, in un chiasmo tra la prima e l’ultima strofa. La morte non è l’opposto o la negazione della vita, ma una forza profonda e non distruttiva che ha la funzione di placare la sovrabbondanza del desiderio e dell’attaccamento alla vita. Se la vita si consuma nella dimensione dell’apparenza, nella superficie delle cose, allora la morte è il peso che trascina la vita al suo fondo, le è connaturata, le conferisce spessore, la fa aderire alla terra. Tutto questo ben prima che le analisi di Heidegger riconducessero all’essere-per-la-morte l’elemento distintivo della condizione umana[10] e che Freud, studiando le nevrosi di guerra e il gioco del Fort-Da del suo nipotino, giungesse a definire la pulsione di morte come un fattore ineliminabile della struttura della psiche, il desiderio di ritorno alla quiete originaria. Nella visione freudiana la pulsione di vita rappresenta un limite per la pulsione di morte impedendogli di procedere verso l’autodistruzione, ma la pulsione di morte è pure un elemento di contenimento del desiderio di vita, fornendo un argine alla dissipazione di sé in rappresentazioni narcisistiche e superficiali.
L’esercizio di vita consiste nel mantenere questo difficile equilibrio che potrebbe definirsi come salute. La via del pensiero e la via delle arti appaiono funzionali a questo esercizio di vita, in cui la vita si svuota e tende alla contemplazione del puro concetto[11]. L’evento della morte appare dunque inessenziale e la causa di esso non andrebbe cercata nel pensiero di Michelstaedter, rimane invece consegnato alla dimensione opaca dell’esistenza.
Massimo
De Bortoli: insegna filosofia e storia al Liceo Le Filandiere di San Vito al
Tagliamento (PN) ed è membro del direttivo della Società Filosofica Italiana,
sezione del Friuli Venezia Giulia APS. Ha collaborato con il Messaggero
Veneto e con Il Piccolo, svolge attività culturali e di formazione
in ambito regionale, ha insegnato presso la Summer School della Rete regionale
per la Filosofia e le Scienze Umane e ha scritto per Animazione sociale,
Quaderni di Edizione, L’Ippogrifo, Studi goriziani.
[1] Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, Adelphi, Milano 1988, p. 29.
[2] Il 25 novembre 2023 si è tenuto presso la Casa Ascoli a Gorizia un seminario di studio, letture e interpretazioni dal titolo “La salute attraverso le arti? Carlo Michelstaedter e le vie dell’espressione del pensiero” con gli interventi di Alessandro Arbo e Elena Guerra e le letture di Stefano Rizzardi. L’evento è stato organizzato dalla Società Filosofica Italiana – Sezione Friuli Venezia Giulia APS in collaborazione con l’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei, la Società Filologica Friulana e la Biblioteca Statale Isontina.
[3]Sergio Campailla, Della salute ovvero della malattia, in Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, Adelphi, Milano 1988.
[4] “In quei giorni ho letto quasi tutto Ibsen. Quello è un uomo, perdio! m’ha fatto pensare e mi fa pensare ancora. Certo, dopo Sofocle, è l’artista che più m’è penetrato e m’ha assorbito”, Carlo Michelstaedter, Epistolario, Adelphi, Milano 2010, p. 326.
[5] Carlo Michelstaedter, La filosofia domanda il valore delle cose, in La melodia del giovin divino, Adelphi, Milano 2010, p. 98. Il riferimento è al celebre caso di cronaca di Thérèse Humbert (1856-1936), una truffatrice vissuta nel lusso per molto tempo millantando una cospicua eredità milionaria, in realtà mai posseduta.
[6]Carlo Michelstaedter, Lo Stabat mater di Pergolesi, in La melodia del giovin divino, Adelphi, Milano 2010, p. 214.
[7]Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere (1920), in Opere di Sigmund Freud, vol. 9. L’Io e l’Es e altri scritti 1917-1923, Bollati Boringhieri, Torino 1986.
[8]Si tratta della famosa dedica al cugino Emilio in Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, Adelphi, Milano 1988.
[9]Carlo Michelstaedter, Epistolario, cit. p. 432. Si tratta della lettera a Enrico Mreule del 16 febbraio 1910.
[10]Su questo tema si veda il recente lavoro di Thomas Vasek, Heidegger e Michelstaedter. Un’inchiesta filosofica, Mimesis, Milano-Udine 2021, nel quale si ipotizza un’influenza del pensiero del goriziano sull’autore di Essere e tempo.
[11] Si veda la scarnificazione del volto nell’autoritratto ad acquerello e lapis, siglato e datato Firenze Giugno 1908, Fondo Carlo Michelstaedter, V, 44.