La recensione di Eliana Villalta a Sospendere la competizione

La recensione di Eliana Villalta

Appena uscito in libreria, Sospendere la competizione è uno studio di ampio respiro, in cui confluiscono in parte alcune delle ricerche precedenti dell’autrice, arricchite dal civile e rigoroso confronto con un’ampia bibliografia librobonatorecente e meno recente sull’argomento. Il libro dialoga in modi diversi anche con alcuni degli autori presenti in questa edizione di pordenonelegge, ad esempio Roger Abravanel e Jean-Luc Nancy.
Parto dal titolo, dove campeggia evidentemente il tema della competizione, assunto come problema, a indicare il nucleo di un paradigma politico e culturale oggi dominante, ben più esteso della discorsività economica. Il modello competitivo poggia su una concezione antropologica antica e tuttavia ridisegnata in forma più ingenua e inquietante. È noto che alcune autorevoli voci si spingono a considerarlo quasi come una nuova religione, una fede almeno, nota sotto l’etichetta di neoliberalismo.
La competizione, come mostra Beatrice Bonato, è onnipervasiva, si estende ben oltre la competizione economica e il mercato, fino a plasmare la nostra quotidianità e soggettività e senza che ce ne accorgiamo; molto rapidamente produce forme di asservimento, di svuotamento del vivere democratico. Siamo messi in competizione, in forme il più delle volte distruttive, con gli altri e con noi stessi, non solo nella sfera professionale, bensì ogni volta che scegliamo come parlare, come stare con gli altri, come guardare ai nostri figli, ai nostri affetti, ma anche che cosa mangiare, come vestirci e così via. Il problema dunque non è tanto che l’inevitabile fatica del vivere sia enormemente accresciuta, ma che l’umanità sia schiacciata da questo nuovo imperativo, COMPETI!, che conforma a sé il nostro sentire e i nostri modi di stare al mondo, presentando la vita stessa come una incessante gara.
Beatrice Bonato, tramite una puntuale analisi di una vasta letteratura, non solo filosofica e sociologica, con la quale entra in dialogo critico, descrive le origini culturali, la portata concettuale, le numerose aporie e i paradossi generati dal comando a competere, non mancando di illustrarne le manifestazioni più pregnanti e pericolose nell’ambito della sanità, dell’educazione e, naturalmente, del potente universo sportivo. Una parte del testo sviluppa, ad esempio, la questione della meritocrazia, della misurazione e della valutazione, nelle aziende, nella scuola pensata come azienda, ma in generale secondo un paradigma agonistico e sportivo abbastanza manifesto, palese. L’analisi ne mostra le ambiguità, ma anche gli effetti etici e politici.
Il sottotitolo del libro, “un esercizio etico”, porta alla luce sia questa discussione critica, come aspetto peculiare di un’etica del pensiero, sia la proposta in cui si sostanzia infine il lavoro. Il titolo inizia, infatti, con il verbo sospendere: strano tipo di azione o attivitàinoperosa, in un certo senso, che porta in campo, accanto all’esercizio critico magistralmente condotto sul comando del competere, un altro tipo di esercizio, eticamente qualificato nell’agire individuale e comune. L’esercizio della sospensione richiama l’epochèhusserliana, come Bonato non manca di chiarire, e come sottolinea puntualmente Pier Aldo Rovatti nell’introduzione, ma è subito chiaro – com’è chiaro nella scrittura e nel pensiero l’intero volume – il fatto che non si tratti semplicemente di un ritorno alla fenomenologia, perché la sospensione assume la forma di una pratica, di un esercizio appunto, di una proposta etica e non precipuamente teoretica. In che cosa può tradursi questa etica? Mi pare di poter affermare che l’esercizio di sospensione della competizione, non prometta tanto di alleggerire la fatica del vivere, quanto di reintrodurre possibilità umane fondamentali, teoricamente e praticamente scartate dal paradigma ideologico dominante. In un certo senso, allora, la sospensione più che consistere in una fuga o un’azione sedativa, può avere la funzione di riaccendere nuove forme di entusiasmo, di aprire spazi di relazione, di libertà, di bellezza che, oggi, sembrano sempre più marginali. Perché non dire che la sospensione riapre al gioco, come hanno fatto alcuni, che hanno voluto neutralizzare la critica accusandola di inanità, escludendo ogni proposta di forme di vita alternative? Non è così semplice. Non tutti i giochi sono agonistici, è vero. Bonato dedica una parte importante del suo libro a quest’attività antropologicamente e culturalmente fondamentale, illustrandone le forme agonistiche, competitive, ma richiamando anche continuamente alla memoria l’esistenza di giochi non agonistici, nel corso di una disamina profonda dei molteplici significati di queste attività umane. Anche qui c’è un importante riferimento al lavoro di Rovatti, di cui Beatrice è stata allieva all’Università di Trieste, tuttavia è notevole l’ottica nuova in cui esso viene sviluppato in questo contesto problematico.
Bisogna essere molto attenti. Le puntualizzazioni presenti nel capitolo non hanno niente a che vedere con la deriva ludica e d’intrattenimento, di sgravio totale, che la richiesta compulsiva di dare a tutte le attività umane un carattere divertente assume oggi. Forse quest’attesa di leggerezza, o meglio di esonero, evidente specialmente nell’apprendimento, è la compensazione del carattere agonistico e “meritocratico”assunto dalle agenzie pedagogiche. Il gioco dà piacere nel suo essere molto serio, nel richiedere impegno e attenzione – lo dimostrano i bambini che imparano a diventare umani – ma può essere un esercizio in cui si tessono le nostre attività, le nostre relazioni, oltre la gara e la competizione. Come insegna Wittgenstein, gioco è anche forma di vita, appunto. Qui troviamo un altro punto importante del libro, il venir meno delle differenze fra le età della vita: come si è chiamati a competere e a essere valutati durante tutta la vita, così ci si aspetta a ogni età una sorta di diritto al divertimento, alla semplificazione, a un’infantilizzazione che è ben lontana dalla specificità dell’infanzia. Questa caratteristica del nostro tempo si traduce nel permanere in uno stato di minorità, quindi di obbedienza, con tutte le conseguenze politiche che si possono immaginare. I dispositivi tecnici assumono anche questa funzione di sgravio e sottomissione. Il gioco non è solo competizione, ma non va confuso con il divertimento. La sospensione qui si lega piuttosto a quel particolare modo di concepire l’azione che si rivela come arte del donare, un agire generoso, dunque, in cui non ci sono vincitori o vinti, ma un sapersi dare e un saper ricevere che, appunto, mettono in gioco un legame non calcolabile e non competitivo fra gli esseri umani e perciò un diverso modo di pensare la politica insieme all’etica.
L’esercizio etico non si declina quindi come un gioco, ma all’interno di un’idea della prassi assai pregnante, rielaborata sulla scorta di importanti filosofie del Novecento, come quella di Foucault, ad esempio. Un punto chiave, in questa sospensione, è una raccomandazione sulla pazienza, su un agire secondo tempi e modi che non sono quelli del mercato o delle nuove tecnologie.

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