Sul seminario di Francesco Valagussa “Che cosa significa tradurre?”

 di Laura Palmegiano e Martina Galletti della 5 F del Liceo Copernico di Udine

gradoAbituati a gesso e lavagna, l’Isola di Grado ha saputo mostrarci un altro modo di fare scuola, superando la barriera tra cattedra e alunni. Abbiamo ricevuto numerosi stimoli, ci è stata data l’opportunità di interagire per soddisfare la nostra curiosità e abbiamo potuto assistere ad alcune conferenze coinvolgenti concettualmente lontane dalla lezione tradizionale in cui si subiscono i contenuti in modo passivo. Mi soffermo in modo particolare sul seminario tenuto dal professor Francesco Valagussa, ricercatore presso l’Istituto italiano di scienze umane (SUM) e professore associato di Filosofia teoretica presso la Facoltà di filosofia dell’università San Raffaele di Milano. “Identità e alterità”: questo il tema da trattare a partire dall’analisi del testo di Walter Benjamin Il compito del traduttore, uno dei saggi di Angelus Novus. In un mondo come il nostro, fatto del voler ottenere tutto e subito, dell’io come protagonista e dell’altro sempre più trascurato e distante, ci dichiariamo essere alla costante ricerca di quel qualcosa che assume il nome di identità. Lo scorrere continuo del tempo, il movimento incessante di ogni cosa fanno sì che l’identità non possa essere interpretata come un dato, ma è necessario che venga ridisegnata costantemente, ricomposta, ristrutturata. Si tratta di una ricerca, dunque, la cui realizzazione appare piuttosto problematica. Allora perché non provare a volgere lo sguardo altrove? Perché non cercare la chiave in grado di svelare la nostra essenza più profonda nell’alterità? Condizione necessaria per fare ciò è comunicare con il mondo che ci circonda, con ciò che non rientra all’interno della nostra sfera personale, e dunque con tutto ciò che, per essere compreso, va tradotto. Immediata pare, secondo un’ottica occidentale, la seguente domanda: “che cosa è la traduzione?” o, meglio, “che cosa deve essere una buona traduzione?” Per poter dare risposta a tale domanda è necessario però definire preventivamente quale sia l’essenza della traduzione, la sua finalità, la sua missione, la sua vocazione. Tradurre significa trasporre concetti da una lingua ad un’altra, porre in relazione tradizioni, culture, identità diverse rendendo il classico confine “noi-loro” sempre più labile e sottile. Si tratta di un insieme di operazioni di sintesi, di comprensione, di mediazione che l’uomo compie tra il suo orizzonte e quello degli altri, tra la sua prospettiva e quella dell’alterità; è un tentativo di appropriazione che mira a trasportare in casa propria, nella propria lingua, il più propriamente possibile il senso dell’originale. Emerge, da questo punto di vista, la limitatezza strutturale stessa dell’operazione di traduzione, che non potrà mai corrispondere al criterio, tipicamente occidentale, dell’esattezza. Tale difficoltà ricopre un ruolo di primo piano nella traduzione della poesia a causa della polisemia del linguaggio poetico, della possibilità di rendere facilmente i significati denotativi di un testo, ma non quelli connotativi. La limitatezza della traduzione poetica diviene dunque limitatezza del linguaggio, in quanto ogni parola, ogni più piccolo elemento, contiene in sé un insieme di connotazioni difficilmente trasferibili con fedeltà. La traduzione sembrerebbe dunque destinata ad una sconfitta in partenza: la visione prospettica e relativa del traduttore determina, infatti, un tradimento nei confronti del testo originale. Emerge così il concetto di nucleo fondante, ossia tutto ciò che nella lingua non è comunicazione e, in quanto tale, non può essere tradotta. Eppure la traduzione poetica funziona e lo spirito dell’opera viene, tutt’oggi, trasmesso correttamente. Si ritiene, infatti, che il senso e il contesto possano essere resi in maniera analoga a quanto avviene nell’originale in quanto l’essenza spirituale, il nocciolo del testo poetico, rimangono fedeli a sé stessi. Essi non rientrano all’interno della sfera della comunicazione, a cui appartiene invece il linguaggio elaborato secondo una concezione strumentale e borghese. Il risultato della traduzione non sarà mai dunque totalmente fedele al progetto originale, in quanto implica l’articolazione della conoscenza e dei concetti, attraverso i giudizi. Questi, definiti come unione di predicato e soggetto, determinano la perdita del valore della parola, della sua certezza e oggettività. Si tratta, tuttavia, di una perdita necessaria e indispensabile in quanto determinata dalla nostra civiltà stessa: siamo condannati, infatti, a rivolgerci alle cose senza individualità, ma procedendo per universali e ponendo, quindi, in un rapporto di relazione tutto ciò che ci circonda. Del resto l’Identità e l’Alterità sono due facce della stessa medaglia: hanno bisogno dell’esistenza reciproca per poter essere ammesse.

e di Francesco Paissan, 5A Liceo Marinelli di Udine

gradoNell’ambito della Summer School di Filosofia, svoltasi a Grado dal 21 al 29 Settembre, il professor Francesco Valagussa, ricercatore presso l’Istituto italiano di scienze umane (SUM) e professore associato di Filosofia teoretica presso la Facoltà di filosofia dell’università San Raffaele di Milano, ha voluto declinare il tema principale – presente negli incontri della Summer School – identità e alterità, partendo da una riflessione sulla difficoltà di traduzione di grandi opere in lingue diverse da quella originale. Questa difficoltà nella traduzione dipende ovviamente dalla semi-impossibilità di una perfetta resa da una lingua all’altra. Questo problema viene analizzato da Walter Benjamin, filosofo e scrittore tedesco, nel libro Angelus Novus. Secondo Benjamin esiste una distanza tra l’opera d’arte e la sua traduzione, poiché l’opera d’arte non tiene conto del fruitore, cosa che deve necessariamente fare la traduzione. Inoltre la traduzione non può che essere soggettiva, in quanto deve essere interpretata. Tale interpretazione o determinazione riguarda però soltanto la forma poiché il contenuto, il reale significato, il “nucleo” di una poesia, rimane indeterminato. Ecco quindi svelarsi il vero scopo della traduzione e l’obiettivo del traduttore. Perché nonostante la traduzione, che abbiamo detto essere imperfetta, riusciamo a comprendere il senso finale di un’opera? E’ Benjamin a rispondere dicendo che l’essenza di un capolavoro non dipende dal modo in cui è espressa. L’abile traduttore è colui che riesce a mantenere lo spirito originale di un’opera, spirito che perisce ma allo stesso tempo si rinnova nella traduzione. Riuscire ad eseguire una traduzione di questo tipo permette al lettore straniero di avvicinarsi a quello che può essere il significato finale della poesia, anche se non riuscirà mai a comprenderlo pienamente. Ciò nonostante il lettore, anche comprendendo in minima parte questo significato finale, può entrare in contatto con culture diverse dalla propria, può entrare in contatto con l’altro, con lo straniero semplicemente leggendo un’opera, e forse sta qui la grandezza della scrittura, nel riuscire a connettere diverse culture. Nella traduzione inoltre sopravvivono i grandi autori della storia.