Presentazione di Le voci del corpo. Quaderno di “Edizione” 2014

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20-09-15 18:30 - 19:30
Piazza Camillo Benso Conte di Cavour, Pordenone, PN, Italia
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Presso Palazzo Badini nell'ambito di pordenonelegge

Presentazione del Quaderno di “Edizione” 2014 Le voci del corpo, Mimesis 2015

Interventi di Beatrice BonatoDaniela FloriduzCaudia FurlanettoFrancesco StoppaClaudio Tondo, Roberto Cescon, Patrizia D'Agostino, Cristina Di Fusco, Marco Durigon,  Diego Kriscak, Silvia Pellegrini, Stefano Stefanel, Eliana Villalta

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 Le voci del corpo, a cura di Claudia Furlanetto e Claudio Tondo, Mimesis, Milano-Udine 2015.
Il libro propone una serie di spunti per una riflessione sul tema del corpo cercando di articolare insieme più punti di vista che attraversano varie discipline: dalla filosofia all'arte, dalla letteratura alla psicoanalisi, dallo sport all'approccio sinestesico all'esperienza dei non vedenti, lambendo campi del sapere per lo più sconosciuti, come la vibroacustica. Il volume è nato da una collaborazione tra il Liceo Leopardi-Majorana e la Società Filosofica Italiana, sez. Friuli Venezia Giulia.

 

Il peso del corpo di  Beatrice Bonato

Le voci del corpo, ultimo volume dei Quaderni di “Edizione”, a cura di Claudia Furlanetto e Claudio Tondo, nasce dalla collaborazione tra il Liceo Leopardi-Majorana di Pordenone e la Sezione FVG della Società Filosofica Italiana. Presentato per la prima volta nel maggio scorso a vicino/lontano dai curatori e dallo psicoanalista Alberto Zino, viene riproposto il 20 settembre a pordenonelegge, con interventi degli autori Daniela Floriduz, Francesco Stoppa, Claudia Furlanetto, Claudio Tondo, e di Beatrice Bonato.
I dodici contributi  che  compongono il volume si fanno apprezzare non solo per il rigoroso lavoro compiuto  da ciascun autore, ma anche per le molteplici risonanze che rinviano dall’uno all’altro, creando una complessa polifonia. Il filo conduttore più immediatamente riconoscibile è offerto da un’interessante riflessione estesiologica, arricchita da ampi riferimenti a studi scientifici, a molteplici campi disciplinari, a pratiche di solito poco frequentate dalla filosofia. Il testo di Daniela Floriduz “Non solo buio. La sensazione del colore nei ciechi primari”, ad esempio, ha per tema un’esperienza di confine e in un certo modo paradossale, se si considera il legame in apparenza indissolubile tra colore e visione. Claudia Furlanetto commenta alcune opere del pittore Lucian Freud, alla ricerca dello sguardo che manca mentre al suo posto si impone la gravità del corpo, resa con un perturbante effetto tattile nelle figure denudate, abbandonate dal desiderio, chiuse alla relazione. L’articolo di Diego Kriscak, su alcune innovative tecniche vibroacustiche, ha alla base l’ipotesi che il suono non sia percepito solo attraverso l’udito, ma anche attraverso gli organi interni del corpo. Questo non è tuttavia l’unico livello di lettura della raccolta. Il volume spazia infatti anche su altre tematiche, come quella, centrale ed attualissima, dello sport, nei saggi di Claudio Tondo e di Stefano Stefanel; convoca in modo significativo la psicoanalisi, nel saggio già citato di Furlanetto e soprattutto in quello di Francesco Stoppa, dove si può trovare una ricostruzione limpida delle teorie lacaniane sul corpo. Molti dei contributi, dicevamo, si muovono in modo più o meno esplicito sul crinale tra più modalità sensoriali. Il carattere sinestesico della percezione assume una specifica valenza fenomenologica, ma suggerisce anche inedite aperture ontologiche. Il transito e la mescolanza da un senso all’altro anticipano, in altre parole, il passaggio dal sensibile al non sensibile, dai sensi al “senso”. Ora, passaggio non significa coincidenza, e neppure, forse, armonia e continuità. Con accenti diversi, gli autori esplorano, infatti, il differire del corpo da se stesso che l’esperienza sensibile testimonia. Per dirlo in forma molto concisa, è vero che ciascuno di noi è il proprio corpo, ma certamente la cosa non va da sé. Lo siamo, sì, non siamo nient’altro – ma questo niente si vive come uno scarto, una non coincidenza, spesso un disagio.
Due saggi di argomento letterario, quelli di Roberto Cescon e di Marco Durigon, mostrano la frequenza  di una tale dissociazione. Il primo, sul corpo nella poesia italiana del Novecento, apre con una notazione introduttiva dal sapore programmatico: «a una maggiore disgregazione dell’identità [...] corrisponde una maggiore attenzione per il corpo, spesso sezionato, deformato o ibridato» (p. 145). È un’osservazione che potrebbe valere anche per altre forme espressive e per una serie di odierni discorsi sul corpo. Il corpo in primo piano, oggetto della cura estetica e di un modellamento sempre più spinto segnala non un felice rapporto con il proprio corpo, ma forse un disagio del soggetto, un dissidio tra  il sé e il corpo. Se questo fenomeno si è acuito nel nostro tempo, il nostro tempo non ne ha però l’esclusiva. Il mondo latino sa bene di che cosa si tratta. In un saggio dotto e avvincente, che offrirebbe tra l’altro ottimi argomenti a favore dello studio della letteratura latina, Marco Durigon cita un epigramma di Marziale. I versi sono rivolti a una matrona che, per nascondere le devastazioni dell’età, esagera con il trucco:

«Galla, te ne stai a casa, e intanto nel mezzo della Subura tu vieni adornata e si prepara per te la chioma che ti manca, di notte deponi i denti allo stesso modo di un abito di seta, giaci riposta in cento vasetti e la tua faccia non dorme insieme con te» (p. 172).

Il volto stesso, di solito sottratto alle vicende inquietanti del resto del corpo,  si divide qui totalmente dal sé, dalla persona. Quest’immagine della faccia scomposta e deposta nei vasetti del trucco, separata di notte dalla sua proprietaria addormentata, è assolutamente straordinaria. Cosa ci colpisce? Certo la frammentazione della persona, e insieme un denudamento inconfessabile, in cui il volto stesso cade al livello dell’informe. Della carne, potremmo anche dire, introducendo così una parola che ricorre più volte in altre pagine del Quaderno. Vale la pena leggere il seguito dell’epigramma, mettendone tra parentesi il brutale sessismo, per  trovare congiunte  paradossali sinestesie ed evocazioni oniriche di oggetti parziali:

«Hai un bel promettermi montagne di delizie: il mio pene è sordo, e benché sia guercio tuttavia ti vede bene» (ibid.).

Dire che non siamo nient’altro che il nostro corpo sottintende una messa fuori gioco, quasi scontata, del vecchio dualismo. Nessuno o quasi può dirsi oggi in senso stretto cartesiano, considerato il tramonto delle metafisiche dualistiche e l’avvento del paradigma delle neuroscienze. Questa è dunque la comune base di partenza dei testi. Detto ciò si notano, nei diversi articoli, almeno due differenti inclinazioni. Le voci si spartiscono evidenziando anche alcune dissonanze interessanti, che costituiscono un pregio del volume.
Vedo dunque da un lato un’inclinazione verso l’immanenza del linguaggio, della soggettività e dell’intersoggettività al corpo, verso una sorta di fecondità del corpo in quanto luogo sorgivo del senso – il senso “spirituale” -  e insieme verso un  movimento di ritorno del senso al mondo del corpo. Così Patrizia D’Agostino (“Quando il corpo si fa lingua”) si sofferma in modo “gustoso”, è il caso di dirlo, sulla carnalità della lingua di Rabelais, con l’appoggio della filosofia materialistica del linguaggio di Jean-Jacques Lecercle.  E Cristina Di Fusco si fa guidare, nella sua riflessione sui comportamenti giovanili intitolata “I corpi vanno a scuola”, dal pensiero di Merleau-Ponty, il filosofo che si è spinto più avanti verso un pensiero del contatto e della reversibilità tra la “carne” e lo “spirito”:

«Merleau-Ponty ci ha mostrato [...] come la nostra esistenza in quanto soggettività faccia tutt’uno con la nostra esistenza come corpo e con l’esistenza del mondo» (p. 200).

Se dunque il corpo è il luogo di un’esperienza ambigua, instabile, di passaggio e transito tra modi di essere che si presentano l’uno come il rovescio dell’altro, questa ambiguità non comporta però separazione:

«La distanza, lo spessore di carne non è perciò ostacolo ma mezzo di comunicazione e proprio il corpo può condurci alle cose stesse, inaccessibili a un soggetto di sorvolo» (p. 204).

Alla fine dell’articolo, questo motivo fenomenologico e ontologico è integrato da Di Fusco con un riferimento alla potenza, nel senso spinoziano del concetto. Sulla scia di Spinoza, la mente compare come pensiero di un corpo potente, attivo, potenziato dalla riflessione, dal rapporto con se stesso, con il mondo, con l’altro.
Altri testi mi pare inclinino piuttosto verso la non coincidenza, scavando nello scarto irriducibile evocato dalla stessa idea di un “rapporto” con il corpo. Parlano soprattutto la lingua della differenza. Colgo una tale inclinazione per il differire nel saggio di Eliana Villalta, dedicato al gusto, ampio e ricco percorso volto a inseguire qualcosa che in effetti sfugge sempre, persino al raffinato pensiero kantiano. In un breve saggio di Agamben, “Gusto”, si può rintracciare una lettura in una certa misura analoga. Il gusto è da una parte il senso più difficile da tradurre in linguaggio, da comunicare, il più singolare. Eppure Kant chiama con questo nome proprio la comunicabilità, l’essenza della convivialità umana. A prezzo di escluderne proprio ciò che richiama il gusto sensibile, e la contiguità “inconfessabile”, tra mangiare e parlare.
Forse, mi sembra voglia dire Villalta, questa radice individuale eppure condivisibile non può che sfuggire, e deve essere lasciata sfuggire. Deve essere mantenuta nel suo segreto. Esattamente il contrario di quanto accade quando se ne fa spettacolo, come nelle gare di masterchef che oggi hanno grande successo di pubblico. Del gusto non si riesce a parlare se non attraverso spostamenti, per metafore, in linguaggio traslato. Non si può propriamente dire, né dire propriamente. E nonostante la nota etimologia che lega il sapere al sapore, non c’è, come ricorda Agamben, un sapere di questo piacere, mentre il piacere di questo sapere resta, nonostante le assicurazioni kantiane, alquanto enigmatico.
Il linguaggio e le parole non sono mai senza corpo e presuppongono sempre più corpi. Corpi insieme separati e comunicanti attraverso un mezzo corporeo. Merleau-Ponty resta sullo sfondo; ma non è la carne il nome di  questo essere in comune nella divisione; non c’è niente di più dei corpi e dei loro confini a spiegare il contatto. Si condivide il confine, la singolarità.
Il gusto, il sentimento della vita, resta indicibile. Per questo motivo “il gusto degli altri” – titolo di un bel film di Agnès Jaoui - è proprio quello che di loro non capiamo; è il loro godimento segreto, sempre eccessivo oppure disturbante. L’indice dell’alterità nella sua radice più profonda, come ha visto bene Žižek. Non è solo una questione di distinzione, nel senso di Bourdieu: nel gusto si trova forse l’ombelico del soggetto individuale in quanto è marcato nel corpo dal significante. Coerentemente, dunque, il saggio di Villalta si conclude così:

«Diversamente dalla modernità [...] un pensiero del corpo dovrebbe impegnarsi non a riscattare la corporeità, ma a rimetterla in questione» (p. 100).

Anche perché

«“il gusto” nelle sue eterogeneità [...] non è mai dato, come in una rappresentazione, ma va sempre trovato, inventato. Come il “corpo”? Discorsi bastardi. Invenzioni che accadono tra noi e ci trascendono sempre» (Ibid.).

Discorsi “bastardi” certo, e tuttavia forse più prossimi all’esperienza sensibile e alla cura di sé di quelli correnti, nei quali l’attenzione al corpo si declina in termini di fitness, di “forma perfetta”, di salutismo oltranzista, di giovanilismo, di modelli estetici e cosmetici omologanti.
Su questa presa di distanza dal mainstream i diversi contributi del volume tornano in effetti a convergere: E anche il saggio di Claudio Tondo, “Il corpo performante dell’atleta”, benché non nasconda il fascino per lo sport, avanguardia dello human enhancement, ci avverte che la tensione al superamento postumano dei limiti corporei non va nel senso della coincidenza, ma semmai di una inedita dissociazione tra sé e il corpo. In qualche modo, verso una nuova forma di dualismo, mossa da una formidabile volontà di padronanza. E allora viene in luce una certa somiglianza tra il cerone della matrona romana sbeffeggiata da Marziale, e le protesi sempre più sofisticate che potenziano le performance del corpo.