Commesse suicide ed ebrei antisemiti

Commesse suicide ed ebrei antisemiti

Recensione del libro di Roberto Curci, Via San Nicolò 30. Traditori e traditi nella Trieste nazista, Il Mulino, Bologna 2015

di Enrico Petris

Perché si suicidarono le commesse della libreria di Saba? Sembra essere questo l’interrogativo del libro dal titolo toponomastico di Roberto Curci, Via San Nicolò 30. Traditori e traditi nella Trieste nazista, Il Mulino, Bologna 2015. Curci, che non è uno storico di professione, ma utilizza materiali di archivio con rigore e padroneggia la curci (1)letteratura critica sull’argomento, ha diretto le pagine culturali de “Il Piccolo”, ha scritto romanzi (L’enigma di Boltzmann, 2012) e saggi su Joyce e sui cimiteri triestini. Apre questo libro dichiarando che parlerà di sparizioni. Anche il fortunato libretto di Pierre Zaoui sulla discrezione parlava di sparizioni, di negazioni di sé, qui però si tratta di sparizioni di persone che o muoiono, o non si fanno trovare o si nascondono, o fuggono. Le due giovani commesse sorelle vittime dell’ingestione di fialette di acido fenico, Margherita e Malvina Frankel sparirono suicidandosi ad aprile e giugno 1922. La loro madre era Elena Fano, prima cugina di Carolina (Lina) Wölfer, moglie di Umberto Poli, poi Saba. Le due avevano una sorella, Lidia che sposò, a guerra conclusa, Carlo Griner. Lo aveva conosciuto in carcere alla risiera di San Sabba, era il fratello di Mauro Grini (cognome italianizzato) cioè di colui che la fece arrestare dai nazisti a Venezia nel 1944. Il padre dei fratelli Grini aveva una sartoria ubicata proprio nei locali di fronte alla libreria che Saba aveva aperto nel 1919 in società col cugino filosofo Giorgio Fano in via San Nicolò 30.
Questo è l’intreccio di un libro che riflette soprattutto sulla città di Trieste, perché se è vero che il titolo è quello di una via, la foto di copertina è quella della risiera di San Sabba, cioè del simbolo che mette in evidenza indubbiamente l’aspetto più problematico della storia della città, quello che ne fa un unicum in Italia. Il protagonista del libro, oltre alla città e al palazzo dove stanno la libreria, la sartoria e perfino la stanza dove alloggiò Joyce, è Mauro Grini, ebreo e delatore delle SS. A partire dal 1944 è un vero e proprio cacciatore di suoi correligionari, che scova non solo nella città ma anche a Venezia, a Padova, a Milano, a Varese e fino a Firenze. Lo fa per denaro; i denunciati vengono spogliati crudelmente dei loro averi prima di essere arrestati, ed inoltre si vanta di percepire settemila lire per ognuno di essi. Curci scava nelle testimonianze alla ricerca di un movente psicologico, l’aspetto sgradevole, la scarsa attrattiva, e psicanalitico dell’antisemitismo semita di Grini. Ma la risposta più convincente rimane la brama di denaro. Il sarto delatore accumula una ingente ricchezza in un anno e poi sparisce nel nulla, forse ucciso dagli stessi nazisti, o forse riuscito a fuggire oltremare con la sua compagna. In mezzo ci sono tutti gli episodi in cui Grini è stato protagonista in negativo. Si tratta di una vera e propria caccia all’uomo, egli insegue i suoi conoscenti e vicini di casa, li va a stanare fino negli ospedali e nelle cliniche nei quali si erano nascosti, in Veneto, a Portogruaro, a Varese, li umilia, li illude, li inganna. Promette loro la salvezza e poi li fa catturare. Il numero di coloro che finiscono nelle mani dei nazisti ad opera di Mauro Grini varia da 700 fino a 1200, stando ad una sua vanteria. Una storia squallida, che mette in campo anche l’ipotesi che egli sia il responsabile dell’arresto dei membri della sua stessa famiglia, rinchiusa a San Sabba, dove peraltro si salvarono continuando a fare i sarti per i vanitosi ufficiali tedeschi.
In parallelo e in controluce scorre la vicenda di Saba e del suo antisemitismo. Così come un paio di anni fa lo storico Sergio Luzzatto con il suo Partigia aveva pesantemente intaccato il mito di Primo Levi, con questo libro Curci solleva più di qualche sospetto su Saba. Lo fa nel primo capitolo paventando, ma dimostrando di non crederci, una qualche lontana responsabilità nei suicidi delle due commesse, negli ultimi capitoli mettendo in chiaro tutto il suo sconvolgente e documentato (si veda anche solo la lettera allo psicoanalista Flescher del 14 marzo 1949: “Gli ebrei in quanto tali […] dovrebbero cessare di esistere”) antisemitismo, la sua scarsa riconoscenza e l’opportunismo verso l’amico Bisia che aveva gestito la libreria durante la sua assenza dalla città. La mancanza di scrupoli di Saba sembra tipica più di un uomo d’affari che di un poeta.
Questo aspetto non viene messo quasi mai in luce dalla letteratura critica, così come il suo antisemitismo viene spesso oscurato e d’altra parte neanche il suo ebraismo viene troppo spesso sottolineato. Forse proprio per il suo rifiuto di quella religione alla quale egli appartiene interamente, per parte di madre, ma dalla quale si sente lontano fin dagli anni dieci e poi sempre più dopo le leggi razziali. Nel corso degli ultimi anni, soprattutto la cultura filosofica italiana si è dimostrata particolarmente sensibile interrogandosi su queste tematiche e guardando per esempio al caso Heidegger (e la Sfifvg continuerà a farlo all’interno del Mimesis-Festival di filosofia il prossimo 22 ottobre in Casa Cavazzini con una tavola rotonda con Bonato, Di Martino, Polidori e Zhok), cioè guardando fuori dall’Italia mentre ora è chiaro che anche da noi vengono alla luce le posizioni, a dir poco imbarazzanti ma sarebbe meglio dire assolutamente scandalose, degli intellettuali anche più miti, anche più amati e intoccabili come il già citato Levi e ora, con questo libro di Curci, Saba. E viene alla luce, leggendo il saggio del giornalista triestino, non solo un grande bisogno di conoscenza ma anche di discussione e riflessione, di lavoro sul negativo.
Uno dei dati storici di fondo del libro consiste nel sottolineare come dei circa 370 delatori e collaboratori triestini, nessuno sia stato condannato nei processi che si sono svolti nel dopoguerra. Questo perché l’amministrazione militare alleata che si instaurò in città fece piazza pulita degli archivi. Al numero ed all’identità di chi collaborò si giunse attraverso una ricerca parallela negli incartamenti di Inps ed Enpas, dove la certosina cura della regolarità contributiva ed amministrativa tedesca aveva annotato i versamenti a spie, delatori, collaboratori, traduttori, dattilografe.

Tra le tante figure di secondo piano che vengono evocate nelle vicende raccontate nel libro c’è anche quella del collezionista Diego De Henriquez, personaggio morto in circostanze sospette nel 1974, conoscitore di molti segreti di Trieste e che meriterebbe un approfondimento supplementare non solo per il ruolo non solo culturale che avrà successivamente, ma anche perché è colui che si incaricò di ricopiare le scritte sui muri che avevano tracciato i prigionieri delle celle della risiera. Operazione che è contemporaneamente preziosa per la documentazione storica, ne ricavò circa 300 quaderni, e per una futura storia della letteratura della disperazione.