Una seduta del convegno nazionale della SFI vista dai nostri inviati

Venezia, 20 ottobre 2015 min. 8°C – max. 18°C

Un’eretica saggezza
Ascoltando Laura Boella e Giulio Giorello

Congresso-SFI

“Il diritto alla filosofia”. Un titolo, quello del convegno nazionale della Società Filosofica Italiana, che suona come un richiamo, se non come un vero e proprio omaggio, a Jacques Derrida, pensatore al quale la nostra sezione è particolarmente affezionata. Du droit à la philosophie è infatti il libro manifesto dedicato dal filosofo francese alla difesa di una disciplina di pensiero messa a rischio dai progetti di riforma, poi rientrati, della scuola superiore francese. Era il 1990, ma la situazione tende a ripetersi, e in Italia ci troviamo oggi, come già in precedenza, di fronte alla prospettiva di una certa riduzione, ma soprattutto di uno snaturamento, della presenza della filosofia nei percorsi di formazione. Si avverte, in questa evocazione discreta – che però torna in più di un intervento dei partecipanti – la legittima preoccupazione di una perdita di peso e di identità per la filosofia e per chi la insegna. Perdita non solo di posti di lavoro e prestigio sociale, ma soprattutto di un significato culturale e, in senso lato, politico. Al tempo stesso, si respinge il sospetto di voler semplicemente difendere una posizione, di voler solo sopravvivere. Il rischio va accettato, questo è il messaggio del convegno; l’incertezza quanto alla propria identità, da parte della filosofia e di chi la pratica, sono un tratto che la contemporaneità ha ormai disegnato. E allora si capisce che la domanda davvero molto esigente del sottotitolo “Quale filosofia nel terzo millennio?” potrà ricevere una sola risposta sensata: non solo non possiamo saperlo, ma neppure dovremmo provarci.
L’intervento di Laura Boella, che abbiamo potuto seguire martedì nello splendore di Ca’ Dolfin, spiazza subito le aspettative eventuali di un qualche programma rassicurante. Tempera, anche, i facili entusiasmi che la momentanea popolarità della filosofia potrebbe suscitare. Soprattutto quelli rivolti a pensatrici e pensatori atipici, come Benjamin o la Arendt. Una popolarità cui peraltro fa riscontro, nel mondo accademico, l’imbarazzo di sempre, o la fretta di collocarli in qualche ambito specifico. Come se il loro modo peculiare di fare filosofia fosse solo un dato di stile, una particolarità biografica. Si dimentica che molti di essi hanno pensato contro la loro epoca. Non solo: hanno fatto filosofia contro la filosofia. Fare filosofia contro la filosofia – titolo scelto da Boella per la sua appassionante esposizione – è stata la loro vocazione, e al tempo stesso il compito, invero paradossale, trasmessoci da loro in eredità. L’urto di una realtà drammatica li aveva costretti a respingere come estranea una filosofia ancora intesa come costruzione di dottrine, e a inventare, proprio attraverso questo congedo, un nuovo modo di fare filosofia. Oggi, anche per nostra fortuna, non sperimentiamo più dissidi così radicali. E tuttavia la filosofia non può sopravvivere senza riattivare questa esperienza intellettuale. Né senza impegnarsi a rielaborarla in quella specifica forma di pensiero e di linguaggio che non può risolversi nell’arte o nella scienza. Neppure senza autolimitarsi, rispetto alla pretesa scientifica di verità oggettiva o all’intenzione creativa dell’arte. Sulla scorta di Benjamin, Adorno individuava nel saggio la forma peculiare assunta da una riflessione di questo tipo. Una filosofia che si esprime in forma saggistica appare come un’eresia, figlia della separazione tra arte e scienza. Espressione irriducibilmente individuale, essa si assume la responsabilità verso l’oggetto in cui scava. Rispetto al quale non cerca l’origine, ma parte dal centro, in medias res, sapendo di non poter risalire in via fondativa alle condizioni dell’esperienza storica alla quale è chiamata a rispondere. Non c’è soluzione alla crisi della filosofia, conclude dunque Laura Boella, nemmeno attraverso la risoluzione della filosofia in etica, non perché non vi sia un impegno etico nella filosofia, ma perché anche questa potrebbe diventare una maniera di autodefinirsi dandosi uno status disciplinare. I pensatori più vitali per il nostro tempo continuano a rimanere quelli che, si vorrebbe dire, “saggiano” la crisi, mettono in scena le contraddizioni senza mai rinunciare, d’altra parte, al rigore.
La prospettiva in cui si è posto Giulio Giorello per affrontare la domanda sul diritto alla filosofia è naturalmente diversa e tuttavia, come diremo tra poco, non del tutto divergente da quella della prima relazione. La domanda sul diritto alla filosofia è rilanciata nei termini di un classico, seppure non pacifico, binomio: “Filosofia e scienza”. Che diritti ha la filosofia rispetto alla scienza? Certo non più quello di discernere tra scienza e pseudoscienza. Piuttosto è invitata a cercare la filosofia “nelle pieghe della scienza”, dice Giorello citando il suo maestro Ludovico Geymonat. Due esempi basterebbero a mostrare quanta filosofia ci sia nella scienza: la decisione di Galileo di puntare il cannocchiale verso il cielo anziché usarlo come curiosità o a fini voyeuristici, e la convinzione di Paul Dirac che tutto ciò che è matematico abbia una corrispondenza fisica. Convinzione che convive con il radicale empirismo attestato da un aneddoto. Un giorno, durante un viaggio in treno da Cambridge, il fisico Pauli per rompere il silenzio ostinato dell’amico gli mostrò dal finestrino un gregge di pecore: “Guarda come sono ben tosate!” al che Dirac replicò “Ben tosate, sì, almeno dalla parte che noi vediamo”. Ma quando Dirac intuì l’esistenza dell’antimateria egli partiva da una sorta di “fede” nell’esistenza, nel mondo fisico, di qualcosa di corrispondente alla radice quadrata di un numero negativo. La sua intuizione si sarebbe rivelata esatta e avrebbe trovato applicazione sperimentale nella tecnologia diagnostica della tomografia a emissione di positroni. Le pecore erano ben tosate anche dall’altro lato…
Il dibattito della filosofia contemporanea, è in sintesi il pensiero del relatore, dovrebbe trarre ispirazione dalla tradizione della fisica contemporanea. Quale immagine della ragione ci viene consegnata attraverso questo confronto? La ragione è calcolo, aveva visto bene Hobbes. Ma il calcolo non esaurisce le possibilità né le responsabilità della ragione. L’altra faccia della ragione calcolante è la ragione come scelta, hairesis. Torna qui il richiamo all’eresia, evocata poco prima da Boella. E con esso torna l’insistenza sul radicamento del pensiero nella vita. Il respiro dell’anima – si cita Damasio – avviene attraverso il corpo e la sofferenza, è nella carne. Ma Giorello preferisce concludere con le parole di Harriet Taylor “Solo chi gode è massimamente virtuoso”, in un elogio spinoziano della gioia.
Nel vivace dibattito che segue serpeggia ancora qualche perplessità sull’idea di un “diritto” speciale per la filosofia. E Luigi Perissinotto si chiede cosa penserebbero i biologi di un convegno dedicato al “diritto alla biologia”. Perché la filosofia dovrebbe avere un diritto particolare rispetto ad altre discipline? Domanda non solo ironica, ci pare di capire, benché questa sfumatura sia ben percepibile. Non per nulla Perissinotto la rilancia qualche giorno dopo a Udine, nell’ultima giornata del Festival Mimesis, articolando magistralmente per un pubblico di giovani studenti la domanda ancora più impegnativa “Che cos’è la filosofia?”
E si capisce che, al netto dell’ironia e del paradosso, resta la fedeltà all’aria di famiglia che tiene insieme autori e stili filosofici anche molto lontani tra loro. Sarebbe stato meglio che il titolo del convegno mantenesse il discreto punto interrogativo che aveva all’inizio, poi scomparso misteriosamente, come insinua Perissinotto?
Oppure sarebbe stato possibile passare oltre il diritto, andare “dal diritto alla filosofia”? Ma forse questa concessione allo spirito derridiano sarebbe stata un po’ troppo spericolata. (BB ed EP)